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Il quartiere romano in cui l’allenatore è cresciuto celebra la vittoria del Leicester di Sir Claudio in Premier League

Da «er pecione» a Sir Claudio re d’Inghilterra. È stata lunga la strada verso il successo per il ragazzino nato in via della Piramide Cestia, e cresciuto tra l’oratorio di San Saba e la macelleria di famiglia in via Luca della Robbia 41, al Testaccio. Adesso che il Leicester ha vinto la Premier e la favola sportiva si è concretizzata, il mondo celebra Claudio Ranieri come l’autore della «più grande impresa della storia del calcio inglese», per dirla con Matteo Renzi. Perché la vittoria conquistata da gente come Jamie Vardy, il bomber che fino a quattro anni fa militava nella quarta serie inglese o come Wes Morgan, il capitano cresciuto nei bassifondi di Nottingham e che grazie al pallone è sfuggito alla droga, racchiude in se l’essenza del calcio. Una favola, appunto. Da celebrare con gli striscioni che a Testaccio hanno iniziato a dipingere appena un attimo dopo il fischio finale allo Stamford Bridge. Oppure con i ricordi degli amici più stretti del mister. Quei ragazzi conosciuti negli delle giovanili della Roma e che condivisero con lui anche la magnifica avventura al Catanzaro. Loro, che Ranieri lo sconoscono fin da ragazzo – e ricordano ancora quando al «pecione», come lo soprannominavano per via della tecnica non proprio sopraffina, fu consigliato di lasciare l’attacco e retrocedere in difesa – non dimenticano però i momenti difficili. Le critiche aspre. Ricevute soprattutto nei due anni, tra il 2009 e il 2011, trascorsi sulla panchina della Roma.

«Questo titolo è il giusto premio a un tecnico che molti avevano sottovalutato», fa notare Roberto Vichi. L’ex libero aveva 19 anni, tre meno di Ranieri, quando insieme a Pellegrini, lasciarono la Roma di Scopigno, che l’aveva fatto esordire in serie A il 4 novembre 1973 a Marassi contro Genova (già, ancora il Genoa) per approdare al Catanzaro. Furono anni intensi. «Con Claudio non dividevo solo l’appartamento ma anche il letto, matrimoniale per fortuna – racconta Vichi – ricordo le risate, stavamo sempre a scherzare, eravamo due borgatari. Ma ci impegnavamo tanto. Claudio era molto determinato e già allora si intuiva che sarebbe arrivato in alto. Era un predestinato». L’amicizia tra i due non si è mai affievolita, nonostante gli anni e la distanza. Vichi ogni estate è ospite in toscana, a casa Ranieri, insieme agli altri componenti di quel Catanzaro tanto caro a entrambi. Dopo la magica notte di Londra i due non si sono ancora sentiti. «L’ultima volta ci ho parlato al telefono qualche settimana fa, ma gli ho chiesto un consiglio personale, non abbiamo parlato di calcio – dice Vichi – dopo Natale sperava solo di riuscire a salvarsi. Ma sapeva di avere almeno tre giocatori più forti di quel che si diceva inizialmente. Del resto lui è così, studia calcio 24 ore su 24, tutto quello che ha ottenuto è solo grazie al suo lavoro e alle sue capacità. È uno che non è mai stato raccomandato e se l’è dovuta vedere da solo con la sua storia per arrivare dove è arrivato».

Più piccolo di tre fratelli, due maschi e una femmina, Claudio ha iniziato a giocare a pallone all’oratorio di San Saba quando la famiglia viveva ancora in viale Giotto. Erano gli anni ’60, a Testaccio il mattatoio lavorava a pieno regime (chiuderà, per essere trasferito, nel 1975) e la famiglia Ranieri conduceva la macelleria all’angolo tra piazza Testaccio e via della Robbia. Mario, il padre, stava dietro il bancone: prima di mettersi in proprio aveva maturato la necessaria esperienza alle dipendenze della famiglia Giorgetti, uno dei grossisti più solidi di Roma. Renata, la madre, invece stava alla casa. Ad aiutarli c’era il figlio Carlo (che ha continuato a commerciare in carne anche dopo la chiusura dell’attività di famiglia) e saltuariamente Claudio, che molti nel rione ricordano bambino.

A dieci anni fu arruolato nella squadra del Roma club Dodicesimo giallorosso, che giocava a Casal Bertone. Dopo poco fu notato da Helenio Herrera e tesserato nelle giovanili della Roma. È li che conobbe Francesco Quintili. Claudio giocava ancora nelle juniores, come centravanti, «e non segnava un gol neanche a morire», ricorda Quintili, che invece faceva il portiere. Di lì a poco l’incontro con mister Trebiciani, che gli consigliò di retrocedere in difesa: fu la svolta. Arrivò la convocazione in primavera e poi la prima squadra. «Sono stati anni belli, spensierati – esclama Quintili – l’estate la passavamo a casa di Claudio, a Ladispoli. Ricordo le scorribande, i cornetti mangiati la notte e le risate. Insomma ci divertivamo. Eravamo molto uniti e lo siamo ancora. Questa vittoria se la merita tutta». Non una parola di più. In nome di un ‘amicizia profonda, sincera e soprattutto discreta, proprio come quel ragazzo partito da San Saba e approdato a 64 anni in una cittadina a 164 chilometri da Londra per scrivere una delle più belle pagine della storia del calcio.

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